La definizione positiva

Ed eccola venir fuori dalla critica del concetto negativo, la definizione positiva della laicità, se questa deve significare qualcosa. La scuola laica deve educare gli alunni alla massima possibile indipendenza da ogni preconcetto non dimostrato. Essa deve sostituire negli alunni all'abito dogmatico, che sembra quasi connaturato col pensiero infantile e giovanile, e che rafforzato e rivolto in un determinato senso nelle scuole professionali è stato sempre fonte perniciosissima di intolleranza e di odi civili, a quell'abito dogmatico – dicevo – la scuola deve sostituire l'abito critico, e alla intolleranza settaria il rispetto di tutte le opinioni sinceramente professate. La scuola laica non deve imporre agli alunni credenze religiose, filosofiche o politiche in nome di autorità sottratte al sindacato della ragione. Ma deve mettere gli alunni in condizione di potere con piena libertà e consapevolezza formarsi da sé le proprie convinzioni politiche, filosofiche, religiose. è laica insomma, la scuola in cui nulla si insegna che non sia frutto di ricerca critica e razionale, in cui tutti gli studi sono condotti con metodo critico e razionale, in cui tutti gli insegnamenti sono rivolti a educare e rafforzare negli alunni le attitudini critiche e razionali. Stabilito questo principio, si ha modo di risolvere logicamente il problema dell'insegnamento religioso nelle scuole. Da molti si afferma che la religione cristiana deve entrare nella scuola, ed è intolleranza ed errore il volernela esclusa. è questa un'affermazione, che può essere vera o falsa, secondo il significato che diamo alla parola religione e alla parola esclusione. Chi proclama essere assurdo e ingiusto escludere a priori dalla scuola ogni studio, di cui siano oggetto i fenomeni religiosi e in special modo la religione cristiana – e questo mentre diamo nei nostri insegnamenti così larga parte alle notizie sulla religione dei greci e dei romani – ha a mio credere, perfettamente ragione. Ma quest'assurdo nelle nostre scuole non esiste. Il professore di storia non parla forse delle origini del cristianesimo, delle eresie medievali, della Riforma, della Controriforma, ecc.? Il commento della Divina Commedia non è forse un veicolo permanente di informazioni storiche sui dogmi e sulla vita della Chiesa cristiana nel Medioevo? E il professore di filosofia non è portato a trattare spesso problemi di religione naturale? E il professore di geografia non dà continuamente notizie intorno alle confessioni religiose, che dividono il mondo? Di questi fatti, però, noi tutti parliamo criticamente. Ognuno di noi ha la sua fede: ebraica, o cattolica, o protestante, o atea, o agnostica; e nulla deve costringerci a mutilare noi stessi o dissimulare le nostre convinzioni. Ma nessuno di noi si crede in diritto di imporre la sua credenza agli alunni. Nessuno di noi prende pretesto dal suo insegnamento per fare della propria fede propaganda settaria. E se qualcuno venisse meno a questo dovere di lealtà, tutti saremmo concordi nel chiedere la sua espulsione dalla scuola. Se, per esempio, un professore di storia andasse a raccontare agli alunni − come si legge in alcune storie scritte da clericali – che Alessandro VI era uno stinco di santo, e che la rivoluzione protestante fu promossa dalla fregola che aveva Lutero di sposare una suora, e che prima della Riforma tutti gli uomini erano felici, e che Lutero morì per castigo di Dio di cattiva morte – come se tutte le morti non fossero cattive –, noi tutti quel professore lo vorremmo destituito non perché sia cattolico, ma perché è assolutamente immune di cultura scientifica e critica, perché è una bestia. E io destituirei anche quel professore di storia, che osasse raccontare agli alunni certa storia anticlericale dell'«Asino», con la stessa crassa e bestiale ignoranza di certi anticlericali: e quel professore lo destituirei non perché è irreligioso, ma perché è ... asino. Un insegnante di latino e greco, che sia fervidamente cristiano, come altri può essere fervidamente buddista, e s'interessi in modo speciale delle origini del cristianesimo, e creda opportuno far tradurre agli alunni i Vangeli piuttosto che i Dialoghi di Luciano, in maniera che gli alunni conoscano i primi palpiti della nuova fede, anziché gli ultimi aneliti del politeismo agonizzante, dev'essere liberissimo di dare al suo insegnamento questo nuovo interessante indirizzo. Il Sermone della Montagna sarebbe un bellissimo tema di traduzione, e gli alunni non ci perderanno nulla né intellettualmente né moralmente a tradurlo invece di un capitolo del Critone. Ma quando arriva a quei passi dei Vangeli di Matteo e di Luca, in cui si dice che Gesù aveva quattro fratelli, l'insegnante badi bene a tradurre fratelli con fratelli, se non vuol essere destituito, non perché cristiano, ma perché ignorante di greco. E se volesse far tradurre il Pentateuco della Versione dei Settanta, badi bene a non tacere agli alunni che il Pentateuco certamente non è l'opera di Mosè, come pretendono di imporre tuttora con beata ignoranza i prelati della Commissione biblica, ma è opera di vari autori, di tempi diversi, e tutti posteriori a Mosè, come tutti i critici serii ammettono oramai senza più discutere. Se si intende in questo senso la introduzione della religione nelle scuole, non si può non essere pienamente d'accordo con chi vuole la religione nelle scuole. E con la religione dobbiamo volere che entri nella scuola la politica, entri qualunque idea abbia mai interessato il pensiero e animato il cuore degli uomini. Ma se per religione si intende mitologia ebraica insegnata come verità storica; se s'intende il catechismo sulla cui falsariga alle domande del professore gli alunni debbono sempre rispondere determinate risposte, e il professore ha sempre ragione e gli alunni debbono dargli sempre ragione; se si intende, per esempio, che i professori di filosofia devono essere per legge tutti cattolici – e sarebbe già un affar serio, in questa tempesta di condanne che si lanciano oggi gli uni contro gli altri gli stessi cattolici, determinare chi è il vero cattolico –, e che i professori di filosofia devono bocciare negli esami tutti gli alunni, che non si rivelino fedeli cattolici, non è più possibile nessun accordo. Perché chi insegna filosofia nella scuola nostra non ha il diritto di pretendere negli esami un atto di fede nella sua filosofia, ma deve solo assicurarsi che gli alunni non sieno pappagalli – poco importa se di cattolicismo o di ateismo o di socialismo –, che la loro filosofia l'abbiano veramente capita, e che filosofando abbiano acquistato davvero il senso dei grandi problemi della vita, la capacità di trattarli razionalmente e con serietà. La laicità della scuola, insomma, è l'educazione critica dei suoi insegnanti. Quando gli insegnanti sieno tutti imbevuti di questa speciale educazione, qualunque argomento essi tratteranno, lo tratteranno, costrettivi dalla forma stessa del loro pensiero, con metodo razionale, cioè laico. Così noi abbiamo laicizzata la Divina Commedia. Quale libro più della Divina Commedia si presterebbe a un'opera di propaganda religiosa? Dante stesso non la concepì come opera di propaganda religiosa? Essa nelle nostre mani ha perduto del tutto la funzione primitiva. Se Dante rinascesse, ci metterebbe all'inferno per punirci del tradimento, che noi facciamo delle sue intenzioni. Nell'opera sua noi non cerchiamo la verità o la falsità delle sue idee religiose, – essa ci è indifferente – ma cerchiamo un documento della civiltà medievale, la sincerità del sentimento, la potenza suggestiva della forma. Il Giove di Dante è morto in noi, ma l'inno del poeta resta. Da quanto finora siamo andati dicendo, risulta anche la soluzione del problema dell'insegnamento del catechismo nelle scuole elementari. Badiamo bene. La questione non merita tutto il fiato, che clericali e anticlericali per partigianeria politica trovano comodo spendervi intorno. Che in una scuola, nella quale un maestro seriamente istruito s'impadronisca per quattro ore al giorno dell'anima dei bambini e cerchi di educare meglio che sia possibile la loro intelligenza, rendendosi conto della modestia e dei limiti dell'opera propria, senza la pretesa di far filosofare i marmocchi di sei anni, che in questa scuola entri un catechista, spesso ignorante e noioso, il quale per due ore la settimana tenga inchiodati i ragazzetti a imparar domande o risposte in cui i poveracci non capiscono nulla, mentre preferirebbero andare a fare chiasso coi compagni liberi da tanta tortura; che ci sia questo famoso insegnamento religioso, non mi pare poi un troppo grande ostacolo contro «la marcia del libero pensiero». Se un effetto apprezzabile il catechismo ha nelle scuole elementari, è che i bambini a cui viene inflitto, se ne seccano mortalmente, e prendono in uggia il catechismo e il prete. Quanti di noi, proprio imparando il catechismo, non han sentito germogliare in sé i primi semi dei dubbi religiosi? Ma il catechismo nella scuola elementare è l'ultima sopravvivenza di un monopolio confessionale che una volta incombeva su tutte le scuole, e di cui vogliamo sopprimere il ricordo anche se conservato da una reliquia inerte. Questa reliquia, per quanto non abbia nessuna portata pratica, vuole perpetuarsi come l'affermazione di un diritto, come il germe di un nuovo sviluppo in cui il passato debba rinascere. E questa rinascita noi non vogliamo. E quel diritto noi neghiamo.