MARCO SCAVINO (Torino 1954) si è laureato nel 1988 in Lettere moderne con indirizzo storico, presso l’Università di Torino, con una tesi dal titolo Origini del movimento socialista in Valle d’Aosta. 1870-1906 (relatore Nicola Tranfaglia).
Dal 1989 collabora regolarmente con il Centro studi Piero Gobetti di Torino – del cui direttivo fa parte – in attività archivistiche, di ricerca e di consulenza storica.
Ha lavorato al primo censimento nazionale delle fonti archivistiche per la storia dei movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta.
Nel 1996 ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia contemporanea.
Dal 2008 al 2021 ha lavorato come ricercatore presso il Dipartimento di studi storici dell'Università di Torino.
Tra i numerosi studi sull’Italia liberale e sul socialismo italiano: Con la penna e con la lima: operai e intellettuali nella nascita del socialismo torinese, 1889-1893, Paravia Scriptorium, 1999; Il socialismo nell'Italia liberale. Idee, percorsi, protagonisti, Unicopli, 2007; La svolta liberale. 1899-1904. Politica e società in Italia alle origini dell’età giolittiana, Milano, Guerini e associati, 2012.
Tra gli studi sulle formazioni politiche di sinistra post ‘68: Potere operaio. La storia. La teoria. Vol. 1, DeriveApprodi, 2018.
Su Matteotti ha curato: Piero Gobetti, Per Matteotti. Un ritratto, Il Melangolo 1994; Aldo Parini, La vita di Giacomo Matteotti. Manoscritto inedito conservato presso il Centro studi Piero Gobetti di Torino, Minelliana 1998. Ha scritto la postfazione alla riedizione del Matteotti di Gobetti nelle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma, uscita nel 2014 e ristampata nel 2024.
La domenica a insegnare a far di conto ai contadini... Intervista a Marco Scavino di Cesare Pianciola
da Una Città n. 215 / Settembre 2014
Giacomo Matteotti è ricordato nei manuali per le scuole come vittima della violenza fascista, ma in generale si sa poco della sua figura di dirigente socialista e di segretario del Partito Socialista Unitario turatiano che si separò dai massimalisti nel 1922.
Matteotti era di una generazione più giovane rispetto ai fondatori del partito socialista e anche ai massimi dirigenti del partito unitario. I leader indiscussi rimanevano quelli della generazione più vecchia, Turati, Treves, Modigliani. A quanto se ne sa, la scelta di affidare la segreteria a un personaggio relativamente giovane (Matteotti era del 1885) rispondeva a una comprensibile esigenza di rinnovamento interno, e poi all’intenzione di offrire un’immagine del socialismo il più possibile svincolata dalle polemiche a cui inevitabilmente erano legate le figure dei dirigenti più anziani. Matteotti aveva avuto fino al dopoguerra un percorso di formazione e di attività molto locale, incentrato nella sua regione di nascita, il Veneto, e nello specifico in Polesine. Ma soprattutto Matteotti rappresentava un pezzo importante di ciò che il partito socialista italiano era stato e, malgrado tutte le difficoltà, continuava a essere, quanto a radicamento sociale nelle zone di bracciantato agricolo, dove era riuscito anche ad assumere il controllo di numerose amministrazioni comunali: un esperimento pratico di conduzione della lotta di massa, legata soprattutto al controllo del mercato del lavoro, che storicamente aveva portato al tentativo di tradurre le idealità del socialismo in una prassi concreta di governo locale a favore delle classi lavoratrici. Le grandi lotte in quell’area vertevano soprattutto sugli "imponibili di manodopera” (la quantità di lavoratori che nel dopoguerra, in certe zone, gli imprenditori erano obbligati ad assumere); e non c’è dubbio che le grandi battaglie dell’immediato dopoguerra, del cosiddetto "biennio rosso”, fossero legate alla volontà padronale di spezzare quel tipo di organizzazione. Dal punto di vista storico, inoltre, è importante ricordare che nelle zone agricole come il Polesine il riformismo socialista esercitava un’egemonia pressoché indiscussa all’interno dei movimenti di classe. Parliamo di territori in cui lo scontro sociale era radicale, a volte anche violento, ma in cui le componenti riformiste risultavano fortissime, molto più di quanto non lo fossero -ad esempio- nelle grandi città e nei centri industriali. È un dato storico sul quale occorre sempre riflettere attentamente. Tornando a Matteotti, credo che in quelle zone fosse davvero un personaggio molto stimato, rispettato, quasi amato, per ragioni che in parte sono quelle esposte da Gobetti nel suo scritto: la competenza in questioni amministrative ed economiche, unita a un fortissimo pragmatismo. E credo che questo suo rapporto diretto con le organizzazioni e con le realtà di base sia la chiave di lettura più utile per comprendere anche quei tratti di radicalismo della sua posizione all’interno del partito, che vengono sempre sottolineati nei profili biografici di Matteotti. Sulla guerra, per esempio, aveva avuto una posizione decisamente più intransigente rispetto a Turati, Treves e ad altri riformisti. E così pure sul problema di come fronteggiare il fascismo e poi di come combattere il governo Mussolini. Non perché fosse meno legalitario e gradualista dei suoi compagni, ma perché la sua formazione e le sue esperienze lo portavano a mantenere sempre ben ferme certe istanze politiche e ideologiche di fondo. In questo senso credo che Matteotti esprimesse, a ben vedere, tutti i pregi e, al tempo stesso, tutti i limiti della cultura politica della Seconda Internazionale: per un verso la ferma convinzione che l’unico modo per arrivare al socialismo fosse quello legalitario, parlamentare, gradualista; per l’altro verso, però, una convinzione altrettanto ferma che il socialismo significasse trasformare alla radice i rapporti sociali, espropriare la borghesia dei mezzi di produzione, democratizzare integralmente le istituzioni. Se si perdeva di vista il fine ultimo delle lotte rivendicative e delle riforme, si cessava di essere socialisti. Vorrei però aprire una breve parentesi a proposito dell’atteggiamento del socialismo italiano, e anche europeo, di fronte alla Prima guerra mondiale. A distanza di un secolo, infatti, è fin troppo facile buttare la croce addosso ai socialisti di tutta Europa per l’appoggio che diedero, quasi tutti, ai propri governi con il voto parlamentare e con l’adesione a quella che fu chiamata "union sacrée”. E anche nei confronti dei socialisti italiani, che si trincerarono dietro alla formula del "Né aderire, né sabotare”, si sentono spesso ripetere accuse di ambiguità, di confusione, di timidezza. A volte sembra quasi che i socialisti vengano considerati responsabili della guerra alla stessa stregua dei governi, degli stati maggiori militari, della grande stampa liberale. Ora, non c’è dubbio che all’interno del socialismo europeo esistessero, al di là del pacifismo ufficiale, moltissime contraddizioni sui temi della nazione, della difesa della patria, della fedeltà dovuta in determinate circostanze alle istituzioni. Così come è del tutto evidente che per le organizzazioni sindacali, ad esempio, contassero parecchio delle considerazioni di carattere nazionale, prima fra tutte la prospettiva, in un’economia di guerra, di rafforzare i salari e l’occupazione dei lavoratori. Credo però che occorra anche tenere conto del contesto politico in cui nell’estate del 1914 i partiti socialisti dovettero decidere quale atteggiamento tenere, delle enormi pressioni alle quali furono sottoposti, della drammatica consapevolezza di non poter fermare la corsa verso il conflitto, del timore di essere posti fuori legge o di subire comunque altre misure repressive. Anche in Italia, dove pure la scelta se entrare o meno nel conflitto poté essere presa in tempi e in termini diversi, per il partito socialista risultò impossibile assumere una posizione di netta e intransigente opposizione alla guerra, proprio per la diversità delle tendenze esistenti. In fondo la formula "Né aderire né sabotare” rifletteva proprio la complessità di questa situazione. Ma tutto ciò non toglie che i socialisti, in tutti i paesi, la guerra l’abbiano subita, non voluta.
Dopo la scissione dei comunisti nel ’21, nel ’22 la maggioranza massimalista spinge fuori l’ala riformista che dà vita appunto al Partito socialista unitario. Nonostante ne diventi il segretario, Matteotti vedeva come una sciagura queste polemiche fratricide perché mettevano in pericolo le conquiste dei lavoratori, proprio mentre il movimento fascista stava già dilagando.
L’atteggiamento di Matteotti di ripulsa verso questa attività frazionistica, che i comunisti avevano portato avanti deliberatamente, nasceva proprio dal suo rapporto con le organizzazioni bracciantili e contadine, con le loro battaglie. È questo che lo porta a diffidare di qualunque forzatura, di qualunque salto nel buio. Il tutto va poi contestualizzato. La nascita con quelle modalità del Partito comunista d’Italia avvenne per una precisa strategia del Comitato Esecutivo della Terza Internazionale. La situazione italiana, agli occhi dell’Internazionale, era particolarmente favorevole dal punto di vista di una rottura rivoluzionaria, tra l’altro proprio per le posizioni che il partito socialista aveva assunto, sia pure fra molte contraddizioni, durante la guerra. Va detto, peraltro, che le maggiori resistenze a quell’operazione vennero proprio dalla figura più carismatica della componente massimalista del partito socialista, cioè da Serrati. Fu Serrati a opporsi duramente, a Mosca, alle condizioni che l’Internazionale poneva per l’adesione da parte dei diversi partiti; e litigò anche sull’obbligo di cambiare il nome del partito, da socialista a comunista, facendo un ragionamento che suonava all’incirca così: "Ma cos’ha fatto il partito italiano per doversi vergognare del suo nome? I nostri operai e contadini non capirebbero perché dobbiamo abbandonare la nostra tradizione”. È significativo, a proposito di queste diatribe nel partito, che Togliatti -ricordando molti anni più tardi la figura di Serrati- abbia confessato che all’epoca lui e altri aderenti alle correnti di estrema sinistra (si riferiva soprattutto agli ordinovisti) nutrivano nei confronti del dirigente massimalista un vero e proprio rancore. I riformisti come Turati li disprezzavano, raccontò, per le loro posizioni legalitarie, ma in fondo da loro non si aspettavano nulla; mentre Serrati lo odiavano veramente, perché ai loro occhi era stato lui a impedire che la formazione del Pci avvenisse con risultati più ampi, cioè con l’adesione della maggioranza del vecchio partito socialista. Detto questo, si tratta anche di tener conto che, in realtà, nei primi anni Venti l’Internazionale comunista era alle prese con problemi tremendi, che la portarono a cambiare più volte le proprie strategie; nel caso dell’Italia, ad esempio, pochi mesi dopo la scissione di Livorno chiedeva ai compagni italiani di ricucire a tutti i costi i rapporti con i massimalisti e con Serrati. A quel punto furono i comunisti italiani a opporsi.
Quello che diceva Lenin: "Fate la scissione ma poi alleatevi”, come se fosse semplice…
Il problema è che l’Internazionale ragionava come una sorta di stato maggiore della rivoluzione mondiale e in molti casi, obiettivamente, era portata a degli errori di valutazione della realtà, cioè dei rapporti di forza concretamente esistenti. In Italia, ad esempio, l’ammirazione e la simpatia per la rivoluzione bolscevica erano senza dubbio diffusissime tra i lavoratori; il mito del "fare come in Russia” era molto forte; ma non era affatto semplice, poi, capire in che modo si potesse fare la rivoluzione. E obiettivamente la forzatura operata dalla minoranza comunista a Livorno dovette risultare poco convincente agli occhi di molti settori del movimento operaio organizzato. Naturalmente, poi, c’era anche chi, come i riformisti e lo stesso Matteotti, la giudicava una follia, una fuga in avanti da irresponsabili. Pensiamo alla concezione che del partito aveva Bordiga, ad esempio, per il quale si trattava di forgiare un’organizzazione di quadri capace di porsi alla guida della rivoluzione armata, laddove la tradizione del socialismo italiano era invece quella di un’organizzazione di massa, per di più sostanzialmente legalitaria. Un personaggio come Bordiga, in questo senso, poteva anche essere il dirigente italiano più affidabile per i bolscevichi russi, ed essere in effetti il più coerente interprete della strategia dell’Internazionale, ma non stupisce che nella realtà italiana apparisse semplicemente come un dogmatico e un estremista. Proviamo a immaginare che cosa potesse pensarne un dirigente socialista come Matteotti, con la sua formazione ideologica e i suoi rapporti con le organizzazioni di classe del Polesine. Mi viene da dire che giudicasse i comunisti come dei semplici avventuristi, ragionando più o meno in questi termini: "Ma noi vogliamo andare dietro a questi? Dove mai potremo finire?”. Purtroppo, la prospettiva di Matteotti e dei suoi compagni poteva avere un senso qualora la situazione nel dopoguerra italiano si fosse stabilizzata sul piano di un liberalismo democratico avanzato, cosa che invece non successe. Infatti furono spazzati via, così come furono spazzati via i comunisti. Continuando a litigare ferocemente fra loro. È stata una tragedia per l’intero movimento operaio, con conseguenze che si sono protratte per tutto il Novecento.
Negli scritti usciti dopo il suo assassinio colpisce quello di Gramsci (su "Lo Stato operaio”, 28 agosto 1924): Matteotti è sì un martire dell’antifascismo, ma anche un "pellegrino del nulla” in un "inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultato e senza via di uscita”, perché estraneo alla prospettiva rivoluzionaria indicata dai comunisti.
Credo non debba stupire più di tanto questo giudizio, proprio per le ragioni che ho detto prima. Quello che fa impressione, semmai, è che Gramsci scrivesse queste cose nel 1924. È chiaro che è facile giudicare col senno di poi, però a me colpisce che nel 1924 Gramsci potesse ancora credere nella possibilità di una rottura rivoluzionaria in Europa, quando ormai la situazione era cambiata radicalmente rispetto all’immediato dopoguerra. In Germania, ad esempio, tutti gli sforzi dell’Internazionale non avevano portato a nulla e proprio l’anno precedente se ne era avuta l’ennesima riprova, con il fallimento di un progetto insurrezionale che si era rivelato impraticabile. Ma il problema in realtà vale un po’ per tutti, se pensiamo a quegli anni. Anche leggendo "La Rivoluzione Liberale” di Gobetti, che continuò a uscire per buona parte del 1925, e seguendo i dibattiti che vi si svolgevano anche con giovani esponenti socialisti, sull’ipotesi di un fronte unico operaio o sulle possibilità di riunificare i partiti socialisti, beh, è difficile sfuggire a un senso di smarrimento; perché si era ormai in piena dittatura fascista (almeno questo è il giudizio storico che diamo oggi) e quei giovani intellettuali continuavano a discutere come se la situazione offrisse ancora delle possibilità di azione pubblica, di massa, alla luce del sole. Va anche detto, però, che nella storia non si era mai verificato un fenomeno come il fascismo. Quando si pensava alla reazione, si avevano in mente le repressioni di fine Ottocento, che tutto sommato si svolgevano nel quadro dello Stato liberale; non a un regime autoritario di massa come il fascismo, che non si era mai visto né in Italia né altrove, che si faceva beffe delle libertà costituzionali e per di più si autorappresentava come una rivoluzione: nazionale, ma pur sempre rivoluzione. Non era facile per nessuno, insomma, capire che cosa stesse accadendo. I comunisti, ad esempio, andarono avanti a lungo a sostenere che il fascismo era semplicemente una forma di dittatura della borghesia, esattamente come quelle liberali e democratiche.
Ben diverso dal giudizio liquidatorio di Gramsci è il ritratto elogiativo che ne fa Gobetti, che pure era un critico impietoso del socialismo italiano: un Matteotti "spulciatore di conti e di bilanci”, che passava le domeniche con i contadini a insegnare loro la tenuta dei libri delle nascenti cooperative…
Per Gobetti, da molti punti di vista, Matteotti era un personaggio perfetto per le valenze simboliche che gli si potevano attribuire. Aveva un’origine borghese, non era nato né bracciante né artigiano, era figlio di un proprietario abbastanza abbiente, ma aveva scelto di schierarsi con il movimento socialista, con i lavoratori. In questa sua scelta soggettiva c’era una carica morale che a Gobetti piaceva tantissimo. Poi c’erano la competenza e l’assenza di demagogia: Matteotti non era uomo da comizio, da sagre, ma se si trattava di discutere il bilancio di una cooperativa o gli appalti del comune allora si appassionava e dava il meglio di sé. Un altro elemento, secondo me decisivo, era la funzione educativa nei confronti dei proletari. Nello scritto di Gobetti viene fuori bene questa cosa: Matteotti sembra quasi una sorta di Socrate che aiuta i braccianti, i contadini poveri a diventare classe dirigente. Diventare amministratore di una cooperativa, consigliere comunale, dirigere una lega vuol dire avere l’elenco dei soci, tenere le quote, fare le vertenze, quindi acquisire le competenze per andare dal padrone e confrontarsi alla pari, ottenere dei risultati. Ecco, Matteotti, che educava in questo modo i proletari, era un’ottima dimostrazione di che cosa poteva essere il socialismo per Gobetti.
Si è detto che Gobetti in un certo modo forzò la figura storica di Matteotti, che risultò indebitamente "gobettizzato”. Mi riferisco in particolare alla premessa di Gianpasquale Santomassimo al dodicesimo e ultimo volume delle opere di Matteotti uscito quest’anno a cura di Stefano Caretti.
Qualche forzatura sicuramente c’è, ma questo vale un po’ per tutta l’attività pubblicistica di Gobetti. In fondo la sua abilità stava anche nell’usare i materiali della storia e della politica per costruire delle tesi, delle suggestioni. Onestamente non saprei dire dove stia il confine. Certo, a leggere il testo di Gobetti a tratti viene da sorridere, perché comunque si tratta del segretario del Partito socialista unitario. Insomma: se uno era davvero così "contro”, così eretico, sembra strano che potesse essere il segretario nazionale del partito. In Gobetti c’era probabilmente una sorta di proiezione personale sui personaggi; c’era qualcosa di come lui vedeva se stesso: un liberale che ne diceva di cotte e di crude a tutti i liberali; allo stesso modo Matteotti era un socialista che fustigava i socialisti; e poi per Gobetti i veri eroi sono sempre solitari: è solitario Alfieri, è solitario Matteotti, è solitario Gramsci... Però, detto questo, secondo me va anche riconosciuto che a volte le sue "provocazioni” coglievano nel segno. Nel caso specifico, l’insinuazione da parte sua che dentro il partito di Matteotti ci fosse stata una polemica fortissima perché alcuni dirigenti della Confederazione generale del lavoro non erano del tutto alieni dall’idea di un compromesso col governo, non era affatto infondata. I confederali erano stati davvero tentati dall’idea del compromesso. Insomma, è vero che a tratti il Matteotti di Gobetti sembra San Giorgio che lotta da solo contro il drago, ma quando si entra nel merito delle questioni politiche, il ritratto che egli ne fa contiene degli elementi importanti, è acuto e intelligentissimo. Sicuramente Gobetti faceva delle forzature polemiche, ma spesso ci azzeccava…
Tra le ricerche sul delitto Matteotti, hanno suscitato molto interesse quelle di Mauro Canali, che hanno disegnato uno scenario di finanziamenti occulti dei vertici fascisti a opera della Sinclair Oil in cambio del monopolio sulla ricerca petrolifera in Italia, scandalo che Matteotti voleva denunciare in Parlamento.
La questione, dal punto di vista storico, è molto interessante. A onor del vero le prime informazioni su questa vicenda le aveva già fornite Renzo De Felice nel secondo volume della biografia "Mussolini il fascista”. Mauro Canali, allievo di De Felice, ha rintracciato nell’Archivio centrale dello Stato dei documenti nuovi, relativamente appunto a un accordo in corso tra il governo italiano e una ditta americana, la Sinclair Oil, controllata in qualche modo dalla Standard Oil, riguardo a un’esclusiva sulle ricerche petrolifere in Italia, per la quale fu pagata una tangente; insomma, un fatto di corruzione che avrebbe coinvolto il fratello di Mussolini, Arnaldo e, secondo alcune tesi, persino Vittorio Emanuele III. Tra l’altro, va detto che questo accordo poi alla fine non andò in porto.
Forse è stato ritirato proprio in seguito alla crisi del delitto Matteotti.
Può darsi; ma non conosco i particolari a sufficienza per poter esprimere un giudizio. A sparare a zero su questa vicenda, nella stampa estera più che in quella italiana, furono gli industriali inglesi, perché l’attivismo della Sinclair Oil, statunitense, disturbava una grande azienda inglese. Va anche detto che l’accordo escludeva comunque le possibilità di scavo in Libia. Questo per dire che la vicenda fu molto complessa, in realtà. È realistico, comunque, ritenere che dietro il delitto ci sia stato anche questo elemento. Ci sono dei forti indizi: qualche tempo prima, Matteotti aveva fatto un viaggio a Londra e si sa che i laburisti gli avevano fornito delle informazioni circostanziate. Va ricordato, tra l’altro, che i documenti che Matteotti aveva con sé quando fu sequestrato non furono mai trovati. Infine, si ritiene che l’intervento che doveva fare l’11 di giugno alla Camera sarebbe stato incentrato su questo. Secondo me, tuttavia, è bene non sbilanciarsi troppo nei giudizi; non mi sentirei di dire, insomma, che Matteotti è stato ucciso per questa ragione. Ciò che mi incuriosisce di più, d’altra parte, è il modo con cui, ai nostri giorni, vengono recepite queste vicende. L’ipotesi sui finanziamenti occulti è diventata quasi senso comune. Questo è davvero curioso. Posso citare un’esperienza personale. Nel corso che tengo all’università uso come manuale "L’età della globalizzazione” di Sandro Rogari, che quando parla del delitto Matteotti dedica un certo spazio anche a questa vicenda della Sinclair, pur senza farne ovviamente la chiave di lettura privilegiata. Ecco: non dico tutti i ragazzi, ma quasi, a una domanda d’esame sul delitto Matteotti ricordano soprattutto quell’aspetto. Domanda: "Mi parla del delitto Matteotti?”. "Sì. Matteotti fu assassinato perché aveva scoperto che Mussolini e la sua famiglia erano corrotti”. Si capisce che leggono con gli occhi di oggi. Cionondimeno a me non piace per niente l’idea che questi ragazzi si formino un’immagine per cui, in fondo, si trattava solo di una questione di soldi, di corruzione, di tangenti. È un’immagine falsa e fuorviante tanto del delitto Matteotti (il segretario di un partito politico, leader parlamentare, sequestrato e ucciso in pieno giorno), quanto più in generale del fascismo.
Il sequestro e il delitto di Matteotti conservano degli aspetti enigmatici.
A me stupisce, in effetti, che in genere non si dia grande rilievo a quello che invece ritengo un aspetto fondamentale di quell’avvenimento. E cioè le modalità con cui avvennero il sequestro e l’omicidio, che erano nuove per lo squadrismo fascista; in genere gli squadristi operavano aggredendo in gruppo, per strada, le loro vittime, a volte con effetti mortali; in questo caso, però, ci fu un evidente salto di qualità, legato a quella struttura illegale del fascismo di cui si sa pochissimo, la cosiddetta Ceka fascista, che in quel momento si direbbe fosse ancora allo stato embrionale, ma che comunque operava a stretto contatto con la presidenza del Consiglio dei ministri. Il capo era Amerigo Dumini, personaggio in vista dello squadrismo fiorentino, uno che si vantava di aver ucciso non so quante persone; era una struttura preposta ad azioni criminali, che faceva capo anche al segretario amministrativo del Partito fascista, Giovanni Marinelli, peraltro anche lui originario del Polesine e forse il vero mandante del delitto Matteotti. Cesare Rossi, fascista della prima ora che all’epoca lavorava all’ufficio stampa della presidenza del Consiglio dei ministri, all’indomani del delitto, temendo di diventare il capro espiatorio, scrisse un memoriale e poi scappò all’estero. Secondo la sua versione, Mussolini era sicuramente al corrente della costituzione della Ceka, ma non era stato lui a ordinare il delitto di Matteotti. Probabilmente era stato Marinelli. Resta poi da capire cosa si prefiggessero gli squadristi caricando Matteotti in auto. Sembra infatti che non fossero preparati a disfarsi del corpo. Girarono ore e ore, uscirono da Roma ma non avevano con sé neanche degli attrezzi adatti a scavare una fossa per il corpo. Si ridussero a scavare col "cric” dell’auto. Sicuramente qualcosa andò storto, rispetto ai piani. È noto che Matteotti fu ucciso quasi subito, per reazione alla sua disperata resistenza all’interno dell’auto; verosimilmente, a un certo punto uno dei sicari lo colpì con un punteruolo, o un pugnale, causandone la morte. Può darsi che lo volessero uccidere dopo, forse l’intenzione era quella di sequestrarlo, portarlo fuori città, seviziarlo, chissà. Per quali ragioni, tuttavia, non lo sappiamo. Un altro aspetto interessante è che questo episodio consente di mettere in luce come nell’estate del 1924 il fascismo fosse ancora lungi dal controllare pienamente la macchina dello Stato: nel giro di 48 ore la polizia risalì ai nomi dei sequestratori e li arrestò, e in breve fu anche avviata l’azione penale; si dimisero dirigenti amministrativi del partito e ministri. Va poi da sé che, se anche Mussolini non fosse stato personalmente il mandante del delitto Matteotti, poco cambia il giudizio su di lui e sul regime, tanto più che il suo atteggiamento nei confronti di tutti quelli che erano stati coinvolti nel delitto fu di sostanziale benevolenza, anche ad anni di distanza.
Dopo la pubblicazione del libro su Matteotti, Gobetti e il suo settimanale appaiono interessati a dialogare con i socialisti, in particolare con i giovani come Carlo Rosselli e Lelio Basso.
Gobetti nell’ultimo periodo sembrò effettivamente avvicinarsi al socialismo. Appare piuttosto evidente, dalla documentazione di cui siamo a conoscenza, che nei mesi che seguirono il delitto Matteotti, per varie ragioni, tutte comprensibilissime, Gobetti avesse iniziato a considerare le potenzialità del socialismo italiano con maggiore benevolenza. Di Gobetti vengono in genere ricordati i giudizi più duri, più drastici sul socialismo riformista (Turati "diseducatore”), che non vennero mai rinnegati del tutto. I toni però si fecero diversi, più aperti; e questo forse lo si può capire anche con le esigenze della lotta politica corrente: l’Aventino, la convinzione iniziale che il governo potesse davvero cadere, che il re fosse indotto a ritirare la fiducia a Mussolini. Però non è solo questo: proprio il fatto che i socialisti con cui Gobetti dialogava fossero quasi tutti giovani fa pensare all’idea di un processo di rinnovamento interno del movimento socialista. Era in questa prospettiva che Matteotti, uomo intransigente e ora martire, era per Gobetti una figura particolarmente significativa. Bisogna anche aggiungere, poi, che quasi sicuramente l’idea di dare alle stampe l’opuscolo su Matteotti venne da Rosselli. C’è una lettera in cui Rosselli gli diceva che quel ritratto era davvero bellissimo, che bisognava farne degli opuscoli popolari e gli annunciava anche un contributo per le spese di stampa. È un segnale evidente di una trama di relazioni, che si stava consolidando. Nel suo tentativo di dare vita ai gruppi della "Rivoluzione liberale” poi non tutto filò liscio; Nello Rosselli, ad esempio, vi aderì per un certo periodo, ma il fratello Carlo no. Gobetti, comunque, anche da alcuni suoi articoli di quel periodo, sembrò convincersi che la sintesi di liberalismo e socialismo fosse possibile. Gli articoli di Rosselli andavano proprio in quella direzione. Io non saprei dire se Gobetti e Rosselli avessero in mente la stessa cosa, in realtà; mi sembra lecito dubitarne. Quando Rosselli avanzò nella "Rivoluzione Liberale” la sua idea del socialismo liberale, Gobetti si disse sostanzialmente d’accordo. Però aggiunse anche una considerazione, sulla quale sarebbe interessante sapere se Rosselli concordasse veramente. L’idea di Gobetti, infatti, era che liberalismo e socialismo possano intrecciarsi senza problemi, se si riconosce -diceva- che "tutte le libertà sono solidali”. A lui, che era un liberale, quella condizione doveva sembrare persino ovvia. Ma per un socialista, qual era Rosselli, che senso ha dire che "tutte le libertà sono solidali”? In fondo, un socialista, anche il più riformista di questo mondo, pensa pur sempre di togliere un pezzo di libertà ai padroni. Se no, che socialista è? Comunque questo è per dire che era un dibattito molto complesso, alla cui radice stava l’idea -disperata- che nel disastro generale si potesse salvare ciò che maggiormente continuava a essere in contatto con le classi lavoratrici, con quello che rimaneva delle organizzazioni sindacali. Poteva esserci da questo punto di vista un occhio di attenzione verso i tre partiti, appunto quello massimalista, quello riformista e quello comunista. Lelio Basso sosteneva addirittura che nell’autunno del ’25, prima di andare a Parigi, Gobetti volesse prendere la tessera del partito socialista massimalista... Chissà se è vero, o se si trattava di un’interpretazione un po’ forzata di Basso. Prove, sinora, non se ne sono trovate. Però il fatto che ci sia stato un suo avvicinamento al socialismo, nell’ultima fase della sua attività pubblica in Italia, mi sembra credibile. Anzi, credo che questa parte della biografia di Gobetti meriterebbe degli studi nuovi. Ci sono i carteggi con Rosselli, con Lelio Basso e con altri esponenti socialisti. Bisogna lavorarci ancora molto, ma è una storia importante da ricostruire.
Nella crisi che investì il fascismo per il delitto Matteotti un appoggio decisivo al governo provenne dal voto largamente favorevole del Senato del 26 giugno 1924 (225 voti favorevoli, 21 contrari, 6 astenuti): un voto "prudente e patriottico” lo definì Croce, che votò la fiducia a Mussolini auspicando che si facesse garante dell’ordine e della legalità. Perché tanta cecità anche da parte di personalità liberali di primo piano che sarebbero passate all’opposizione l’anno successivo?
Questo, a ben vedere, è l’aspetto più significativo dal punto di vista storico-politico, della crisi legata al delitto Matteotti. Il mondo liberale italiano, così come la quasi totalità delle classi dirigenti, dagli imprenditori alla magistratura, al ceto burocratico statale, malgrado tutto avevano paura che dalla caduta di Mussolini, in quelle circostanze particolari, potesse derivare un clima incontrollabile di disordini e di violenze. Occorre tenere presente che il fascismo non era un partito qualsiasi, aveva una milizia armata che non si sarebbe fatta accantonare senza reagire. Senza dimenticare, inoltre, che il governo alla Camera dei deputati godeva di una maggioranza larghissima, frutto della riforma elettorale maggioritaria votata l’anno precedente (la cosiddetta legge Acerbo) e dei risultati elettorali del mese di maggio. Lo spettro, insomma, era quello della guerra civile. Ma non si trattò solo di questo. Al fondo di tutto, in realtà, stava il timore che il crollo del fascismo potesse aprire le porte a soluzioni governative in cui fosse coinvolta una parte, almeno, del movimento socialista. Ipotesi non del tutto infondata, nel clima di quella estate del 1924. E questo, per la maggioranza delle classi dirigenti italiane, continuava a essere inaccettabile, in quanto si pensava (non a torto, credo) che i socialisti avrebbero messo in discussione gli equilibri di fondo su cui poggiavano la monarchia statutaria e il sistema liberale. Ma poi: perché stupirsi? Quelle classi dirigenti erano le stesse che venti mesi prima avevano accettato senza grossi problemi la formazione del governo Mussolini, dopo la marcia su Roma; qualcuno, anzi, l’aveva considerata con aperto favore, come la soluzione migliore alla prolungata instabilità politica e istituzionale del dopoguerra. Ricordiamo che cosa disse Mussolini quando si presentò alla Camera dopo la marcia su Roma: "Potevo trasformare quest’aula sorda e grigia in un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto...”. E la stragrande maggioranza dei deputati gli votò la fiducia: votarono a favore i vecchi liberali come Giolitti, Orlando e Salandra, e lo stesso fecero i popolari, come Gronchi e De Gasperi. Votarono contro solo i partiti di sinistra. Sarebbe bene ricordarlo sempre, quando si discute di come il fascismo riuscì a conquistare il potere.