LUCA BUFARALE (Genova, 1983). Ha conseguito la Laurea triennale in Storia (indirizzo contemporaneo) nel dicembre 2005 presso l’Università di Bologna con la tesi “Mutamenti economico-sociali e proposte di riforma nell’URSS degli anni sessanta e settanta” (relatore prof. Ignazio Masulli) e la Laurea specialistica in Storia d’Europa (indirizzo contemporaneo) nel luglio 2008 presso l’Università di Bologna con la tesi “Riccardo Lombardi e il centro-sinistra” (relatore prof.ssa Mariuccia Salvati, correlatore prof.ssa Francesca Sofia). Su Lombardi ha conseguito nel 2012 anche il dottorato all’Università di Padova (tutor prof. Silvio Lanaro).
E’ redattore della rivista in rete “Diacronie. Studi di storia contemporanea” e docente di filosofia e storia negli istituti d’istruzione superiore.
Ha pubblicato le monografie Sebastiano Timpanaro. L’inquietudine della ricerca, prefazione di Mario Bencivenni, postfazione di Romano Luperini, Pistoia, Centro di Documentazione Pistoia Editrice, 2022, e Riccardo Lombardi. La giovinezza politica (1919 – 1949), prefazione a cura dell’Associazione Labour, Roma, Viella, 2014. Tra gli ultimi lavori: Luca Bufarale, Erica Grossi, Claudio Panella, Jacopo Tomatis, Sessantotto. Dall'immaginazione al potere, Biblion, Milano 2023.
L’antifascismo di Giacomo Matteotti di Sebastiano Timpanaro
A cento anni dall’assassinio di Giacomo Matteotti (22 maggio 1885-10 giugno 1924) L’ospite ingrato, Rivista online del centro interdipartimentale di ricerca Franco Fortini ha ripubblicato la recensione di Sebastiano Timpanaro a Scritti sul fascismo, a cura di S. Caretti, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, originariamente pubblicata in «Belfagor», vol. 39, 3, 31 maggio 1984, pp. 368-374.
Tra gli studiosi del socialismo italiano e non soltanto italiano, Caretti è uno dei pochi che abbiano saputo evitare i due pericoli in cui facilmente cade chi si occupa di questa materia: da un lato la storiografia di partito, che, anche quando non scade a mera propaganda politica immediata, è sempre viziata da reticenze, «abbellimenti», preoccupazioni apologetiche; dall’altro una falsa obiettività frigida e cattedratica che rifugge da ogni appassionamento dell’autore al suo tema, ai suoi personaggi, e, proprio per mancanza di impulso storico-politico, finisce spesso col risultare deludente sul piano della semplice ricerca documentaria. Di studiosi come Stefano Caretti, capaci di rimettere in luce, nei suoi aspetti più originali, il patrimonio ideale e pratico del socialismo italiano c’è (mi sia lecito dirlo senza diplomazie) tanto più bisogno ora, poiché quei caratteri peculiari che, sia pure attraverso contraddizioni e travagli, avevano un tempo differenziato il socialismo del nostro paese dalle socialdemocrazie degli altri paesi europei, sono ormai totalmente scomparsi, nel quadro generale di una desolante abdicazione delle «sinistre storiche» italiane e internazionali, o almeno dei gruppi dirigenti che ne determinano la politica.
Già noto soprattutto per un eccellente libro su La Rivoluzione russa e il socialismo italiano (Nistri-Lischi, Pisa 1974) e per vari contributi allo studio della personalità di Matteotti ai quali dovremo ancora accennare, Stefano Caretti ha ora curato, con informatissime note e con un’esatta e lucida introduzione (preceduta a sua volta da una breve premessa di Gaetano Arfè), la ripubblicazione dei due libri di Matteotti Un anno di dominazione fascista (Roma 1924) e Il fascismo della prima ora (Roma 1924, uscito postumo). In appendice al volume sono ristampati nove articoli che, apparsi nella «Giustizia» e attinenti al medesimo tema degli articoli utilizzati per Il fascismo della prima ora, non furono inclusi da Matteotti nell’opuscolo, ma ne costituiscono un utilissimo complemento, pieni come sono anch’essi di forza polemica e di stringente documentazione delle menzogne e delle ferocie fasciste.
I due libri, nonostante la diversità di mole e di respiro (assai più ampio, più approfondito nella diagnosi del fenomeno fascista il primo; più «pamphlettistico», nel senso migliore del termine, il secondo), sono complementari e mirano entrambi allo smascheramento dei due volti coi quali successivamente, e poi anche contemporaneamente, si era presentato il fascismo: il volto iniziale «diciannovista», di partito demagogico, raccoglitore alla rinfusa e sfruttatore di tutti i motivi di malessere postbellico, rumoroso proclamatore di tesi eversive e apparentemente ultrasinistre; e il volto di restauratore dell’«ordine», di partito forte della borghesia agraria e industriale, capace di fornire ad essa quelle garanzie che il vecchio regime liberale- costituzionale non sembrava più sufficiente ad assicurare (il vero pericolo rivoluzionario, e su ciò Matteotti insiste a più riprese, era ormai cessato; ma la paura era stata grande, e la borghesia, in spregio alle libertà da essa stessa un tempo proclamate, volle garantirsi anche per il futuro). Forse prima di ogni altro, certo con più lucidità, Matteotti comprese questo carattere di novità del fascismo come regime reazionario di massa. Perciò la sua polemica antifascista (che del resto, come accenneremo, e come Caretti ha messo in luce, non si esaurisce tutta in questi due libri pur cosi fondamentali) è più profonda di quanto può apparire a una prima lettura: prende le mosse da una documentatissima denuncia delle «contraddizioni» del fascismo, delle promesse non mantenute, del costante divario tra parole e fatti; ma mostra piena consapevolezza che quelle contraddizioni (finché a farle esplodere non venga – e non venne! – un’opposizione lucida e intransigente) sono un elemento di forza, di nefasta «originalità» del regime. Sono, si può ben dire, la ragione del suo successo: spinte ribellistiche confuse, di matrice sottoproletaria e piccolo-borghese, vengono, grazie a quella demagogia e a un truculento nazionalismo rivestito anch’esso di panni «popolari», strumentalizzate in funzione antiproletaria. Non a caso uno dei più feroci movimenti reazionari si autodefinì «rivoluzione fascista».
Questa eccezionale capacità di diagnosi e volontà di lotta derivarono a Matteotti da una formazione e da un temperamento politico estremamente complessi, che ne fecero un isolato. Se è vero che egli andò incontro al martirio con piena consapevolezza, è anche vero che moltissimo ha nociuto alla comprensione della sua personalità l’essere considerato unicamente come «il Martire». Se ne è fatto, così, fin dall’indomani del suo assassinio, un simbolo più etico che politico, una vittima sacrificale; pur con le migliori intenzioni (talvolta, però, anche con una certa volontà di mistificazione, da parte di chi con Matteotti vivo, con le sue idee, con la sua combattività ben connotata politicamente non aveva nulla da spartire), si sono mantenute nel vago le caratteristiche, tutt’altro che facili a interpretare, del suo socialismo.
Matteotti, come è noto, si professò sempre socialista riformista o (per usare un termine oggi desueto) gradualista. Non rinnegò mai un suo ideale di socialismo «padano» o «veneto», crescente in séguito a un’azione organizzativa quotidiana, per via associazionistica (cooperative, leghe sindacali, organismi amministrativi), all’interno delle istituzioni parlamentari. In Turati riconobbe sempre il suo maestro e il suo interlocutore privilegiato, anche quando (qui incominciano a rivelarsi i paradossi) il dialogo rivelò, come Caretti ci ha mostrato, dissensi sempre più aspri, addirittura violenti. Non è difficile (lo accenneremo tra poco, sulla scorta dei due libri qui recensiti e di precedenti scritti di Caretti) mettere in luce tutto ciò che lo pose in netto contrasto coi riformisti, anche coi riformisti italiani della sua epoca, del tutto diversi dai «riformisti del capitalismo» che, per nostra mala sorte o incapacità, sono toccati a noi come contemporanei.
Assai più difficile è capire perché egli perseverasse nel combattere quasi esclusivamente entro il recinto riformista una battaglia che, già prima del fascismo, aveva ben chiari connotati rivoluzionari.
Di tali connotati il primo che balza agli occhi è la sua assoluta, feroce opposizione alla prima guerra mondiale nel suo insieme e all’intervento dell’Italia in guerra. Non ci stiamo dimenticando che il nostro compito è di recensire gli Scritti sul fascismo, non di tracciare, facendoci belli del lavoro altrui, un profilo complessivo di Matteotti. Ma non possiamo fare a meno di dare un suggerimento, forse non a tutti superfluo: insieme agli Scritti sul fascismo o magari prima ancora di essi, si rilegga in «Belfagor» (XXXIII, 1978, pp. 381-402), il saggio ampiamente documentato e ben ragionato di Caretti su G. Matteotti combattente contro la guerra.
È stata sempre considerata, giustamente, come un grande titolo di merito del Psi l’avversione alla guerra, di contro al disastroso socialpatriottismo dei tedeschi, dei francesi, degli inglesi, dei russi menscevichi; su questo titolo di merito si batté fino all’ultimo Serrati, con argomentazioni degne di rispetto, per sostenere il diritto all’adesione del Psi alla Terza Internazionale senza mutamento di nome e senza espulsione dei riformisti disposti a rimanere nel partito. Ma al «riformista» Matteotti quell’atteggiamento neutralista era sembrato troppo timido: egli avrebbe voluto l’insurrezione popolare contro l’intervento, e severissima fu la sua posizione contro i riformisti quando, dopo Caporetto, aderirono a posizioni di «difesa della patria» e di temporanea solidarietà nazionale. La violenza e insieme la lucidità delle sue continue dichiarazioni internazionaliste, addirittura antipatriottiche, negatrici di qualsiasi differenza rilevante tra i due blocchi imperialistici in conflitto (dichiarazioni che gli costarono un lungo confino in Sicilia) superano forse quelle di Serrati e degli altri massimalisti; e l’unico punto sul quale si vorrebbe sapere qualcosa di più è se egli ebbe, appunto, contatti coi massimalisti o, come più tardi, combatté da «riformista isolato». Va ad ogni modo sottolineata, credo, questa totale contrapposizione fra Matteotti e i futuri socialisti liberali (Rosselli, Ernesto Rossi, Calamandrei…) che, in buona fede ma con grave incomprensione del carattere imperialista e non «risorgimentale» della guerra, caddero tutti nella trappola dell’«interventismo democratico» e, tranne Lussu, vi rimasero; il che, a mio avviso, impedisce di considerarli, anche per il periodo successivo, dei socialisti «più avanzati», rinnovatori del marxismo. Da rinnovare c’era e c’è molto, ma non si può rinnovare ciò che non si è capito; quelle personalità eroiche devono essere ammirate e anche politicamente valutate, ma solo nell’ambito della democrazia e dell’antifascismo; laddove Matteotti già nel 1912 metteva in guardia contro il pericolo di un’identificazione tra democrazia e socialismo (cfr. ancora un lavoro di Caretti, Documenti per Matteotti, «Istituto di storia del movimento operaio e contadino di Ferrara», Ferrara 1978, p. 9).
Se proviamo a chiederci ciò che rese così difficili e pressoché inesistenti i rapporti col comunismo e col massimalismo da parte di un così deciso classista, antimilitarista, anticolonialista (già la guerra libica aveva suscitato la sua opposizione più aspra: cfr. Caretti in «Belfagor» 1978, p. 383 e n. 5), dobbiamo probabilmente rifarci da un lato alla sua molto precoce diffidenza contro le degenerazioni autoritarie del comunismo (cfr. la frase del 1920 citata da Caretti in Documenti per Matteotti, p. 17: non «dittatura di pochi sul proletariato», ma «dittatura transitoria del proletariato» con autogoverno delle masse lavoratrici: parole che si sarebbero rivelate del tutto giuste via via che maturava l’avvento dello stalinismo, ma che, se mi è lecito esprimere un parere sul quale oggi i più non saranno d’accordo, non rendevano giustizia a Lenin e a Trockij, alla tragica situazione di una rivoluzione russa a cui non aveva corrisposto una rivoluzione in Occidente), dall’altro, e forse ancor più, alla sua insofferenza contro il rivoluzionarismo verbale dilagante in Italia e contro l’erronea interpretazione del fascismo come ultimo e disperato sussulto di una borghesia ormai avviata a rapida disgregazione. Quell’ansia di esattezza documentaria, di raccolta esauriente di dati e di cifre, che caratterizza Un anno di dominazione fascista (raccolta compiuta in condizioni difficilissime: cfr. Caretti, introduzione, pp. 15-18), mira certamente in primo luogo a inchiodare il fascismo alle sue responsabilità, ma vuol essere anche una lezione, rivolta alla Sinistra italiana, di stile polemico concreto e antiretorico pur nella sua veemenza, come base per un’azione incessante contro una tirannide destinata, altrimenti, a durare e a rafforzarsi.
Ma anche in questo libro, e nel seguente, Matteotti non si restringe mai a una pura difesa della legalità costituzionale. Anzitutto, egli non cessa mai di denunciare l’assenteismo e, ancor più, l’aperta connivenza con le violenze fasciste da parte dello Stato (polizia, magistratura, forze armate, burocrazia). La vittoria del fascismo è il risultato della collaborazione fra le forze illegali squadristiche e le forze legali reazionarie, e il j’accuse di Matteotti si rivolge contro queste non meno che contro quelle: si vedano specialmente le parti Il e III.
C’è di più. Dietro la violenza squadristica e dietro la connivenza statale c’è una borghesia ben decisa, come abbiamo accennato, a non correre più rischi. Il nesso, certo, non è unilineare e meccanico: una parte minoritaria della borghesia entrò, a un certo punto, in collisione col totalitarismo fascista, che poté quindi apparire come un movimento liberticida in generale. Ma a mostrare le debolezze di questa interpretazione aclassista del fascismo, che oggi è ritornata di moda, basterebbe il ritardo con cui certi grandi intellettuali liberali, come Croce, si dissociarono dal fascismo (e la dissociazione fu, anche allora, parziale: fu rivendicazione di libertà culturale e insofferenza per le mascherature demagogiche del fascismo, non per la sua sostanza reazionaria). Troppo spesso si dimentica che, ancora dopo il delitto Matteotti, in un momento in cui Mussolini si sentì prossimo alla rovina e poteva in realtà essere facilmente abbattuto, Croce votò in Senato a favore di Mussolini. Né le grandi democrazie occidentali, anch’esse ossessionate dal pericolo comunista, ritennero che un delitto così efferato fosse motivo sufficiente per togliere al fascismo la loro complicità; e altrettanto ciecamente si comportarono, una decina d’anni dopo, nei riguardi del nazismo.
Ebbene, il riformista Matteotti è un antifascista classista e antiborghese, fino a negare implicitamente un presupposto essenziale del riformismo, cioè l’esistenza di una borghesia disposta a non «rompere le regole del giuoco». Gran parte di Un anno di dominazione fascista (e del Fascismo della prima ora) è dedicata a mettere in luce sia le conseguenze particolarmente antiproletarie della politica economica fascista, a tutto vantaggio del grande capitale (vedi, a puro titolo di esempio, i capitoli su «Profitti e salari», pp. 45-47; «Disoccupazione, emigrazione, scioperi», 47-49; « Politica tributaria», 66-68; «Vie aperte alla speculazione privata», 77-82), sia il fatto che i provvedimenti liberticidi, se finiscono col sopprimere tutte le libertà, sono però diretti particolarmente contro la libertà di organizzazione e di lotta dei lavoratori: vedi soprattutto il capitolo su «Politica operaia» (pp. 82-91), e tutta la parte III, culminante, come in un crescendo, nel capitolo su «La conquista di Molinella» (pp. 253-271), cioè della roccaforte di quel «socialismo padano» al quale Matteotti continuava a guardare come un ideale nell’atto stesso in cui doveva constatarne l’impossibilità di resistere al fascismo, nonostante l’eroica resistenza dei difensori. Queste pagine raggiungono anche, contro ogni intenzione letteraria, un alto valore letterario: dalla documentazione lunga, implacabilmente precisa, «talvolta addirittura ossessivamente iterativa» (Caretti, pp. 26 s.), scaturisce il pathos, un pathos «freddo» e perciò tanto piu efficace.
Del resto, fin dal ’21 Matteotti dava del fascismo una esplicita interpretazione classista: «La classe che detiene il privilegio politico, la classe che detiene il privilegio economico, la classe che ha con sé la magistratura, la polizia, il Governo, l’esercito, ritiene sia giunto il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esce dalla legalità e si arma contro il proletariato. [ … ] Ecco perché l’Agraria protegge il fascismo, ecco perché il fascismo nasce e si sviluppa nelle zone dove il capitalismo viene intaccato. Il capitalismo aggredito nella borsa, diventa una bestia feroce» (cito da S. Caretti, Matteotti inedito, in «Nuova Antologia», n. 2148, ottobre-dicembre 1983, pp. 97-118: i passi citati a pp. 100 s.). E se in Un anno di dominazione fascista i capitoli sulla politica estera fascista ne mettono soprattutto in evidenza l’avventurismo, l’incoerenza, l’appoggio allo sciovinismo francese destinato a fomentare il revanscismo tedesco (pp. 113- 117), un discorso tenuto più tardi a Bruxelles, quasi alla vigilia della morte, affronta con rara precocità il tema, ancor più importante, del fascismo come fenomeno potenzialmente internazionale: «En dehors de l’expérience purement italienne, il y a dans le fascisme quelque chose d’international. Au début, la bourgeoisie industrielle était démocratique. Mais du jour où à la concurrence s’est substitué le trust, à la liberté d’échange le protectionnisme et l’intervention de l’Etat, la bourgeoisie a cessé d’être libérale et démocrate. Le jour où, après la guerre, la bourgeoisie est appelée à payer la guerre, elle se révolte et cherche son soutien dans la dictature» (cfr. Caretti in «Nuova Antologia» cit., p. 111). Ricompaiono i due temi, strettamente connessi, del fascismo come regime reazionario moderno, impensabile prima che il socialismo diventasse una minaccia concreta per la borghesia, e della prima guerra mondiale come premessa del fascismo.
Un uomo di queste idee, se non aveva trovato la sua collocazione fra i comunisti né fra i massimalisti, si trovò in non minore isolamento quando, compiutasi nel ’22 l’ulteriore scissione del Psi tra massimalisti e riformisti, accettò di diventare segretario nazionale di un partito riformista (il Partito socialista unitario) nel quale, si può ben dire, nessuno la pensava come lui né sulla diagnosi del fascismo né sul «che fare» contro il fascismo. Caretti osserva che col suo libro Matteotti «pensava di rivolgersi anche a quegli esponenti del suo partito che si venivano ormai adagiando in una sorta di passività nei riguardi delle iniziative fasciste, così come a quei dirigenti sindacali che per parte loro si mostravano addirittura disposti a promuovere una collaborazione almeno “tecnica” con il nuovo governo presieduto da Mussolini» (p. 16). E cita in nota un brano di lettera del 28 marzo 1924 a Turati, in cui vi sono parole estremamente dure nei riguardi «di tutti o di tre quarti degli uomini maggiori del nostro Partito» e, implicitamente, di Turati stesso: «Vogliono il nulla perché sono nulla» scrive, fra l’altro, Matteotti. «Io non intendo più oltre assistere a simile mortorio. Cerco la vita. Voglio la lotta contro il fascismo. Per vincerla bisogna inacerbirla» (sottolineatura mia). Ma, in attesa di un’edizione completa dell’epistolario, dovranno essere intanto rilette tutte le lettere a Turati degli anni ’22-24 pubblicate da Alessandro Schiavi (F. Turati attraverso le lettere dei suoi corrispondenti, Bari, Laterza, 1947, pp. 204-208, 225-227, 236-238, 246 s. con una durissima presa di posizione antipatriottarda che ci riconduce all’atteggiamento di Matteotti nella prima guerra mondiale, con un’accusa aperta di «disfattismo» a Turati; e Turati, pur invecchiato e disorientato, era ancora, e rimase, lontano dai veri e propri collaborazionisti).
Non c’è dunque da meravigliarsi – anzi, il fatto avvenne con un certo ritardo – se, a breve distanza dalla scissione tra massimalisti e riformisti, Matteotti si orientò verso una riunificazione: l’esigenza è posta da Matteotti a Turati in più di una lettera, ma particolarmente nell’ultima di quelle pubblicate dallo Schiavi (p. 274: senza data, ma certo di poco anteriore all’assassinio). E come in occasione della prima guerra mondiale egli aveva prospettato l’insurrezione armata, così varie frasi di quest’ultima lettera e delle precedenti fanno intendere che ogni illusione di far cadere il fascismo per via pacifica, dopo il tradimento del grosso delle forze liberaldemocratiche, era stata da lui abbandonata: «È necessario prendere, rispetto alla Dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fin qui. […] Lo stesso codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà…». Lotta armata contro il fascismo, allora, per ristabilire le premesse di un socialismo riformista, come, in sostanza, ritennero gli uomini che confluirono poi nel Partito d’Azione? A rispondere di sì indurrebbe la tenace scelta di schieramento di Matteotti, fino all’ultimo, tra i riformisti (anche all’appuntamento della riunificazione coi massimalisti egli si sarebbe presentato pur sempre con un’autodefinizione di riformista, per quel che è dato capire; e i comunisti furono, fino in fondo, da lui considerati come una forza negativa, incapaci di rivoluzione ma «pretesto» alle violenze fasciste). A rispondere di no, cioè a supporre, con tutte le cautele del caso, un Matteotti che quando fu assassinato si stava evolvendo in senso rivoluzionario anche anticapitalista, non soltanto antifascista, consiglierebbe la sua convinzione, ormai ben ferma, che la nuova borghesia imperialistica non lasciasse spazio a un socialismo raggiungibile per via pacifica.
Su un punto si ha l’impressione che egli stesse ancora cercando una risposta chiara: sugli organismi in cui si sarebbe dovuta concretare quella «dittatura transitoria del proletariato» gestita dal basso, a cui abbiamo già accennato. Che tali organismi, pur non rinnegando tutto ciò che di iniziativa spontanea e regolata insieme, di distacco dalla «politica» dei politicanti c’era nell’associazionismo padano, non potessero nemmeno rimaner fermi a quel sia pur nobilissimo livello, sembra evidente. Di più non è lecito dire, sia perché non ci è possibile far congetture sull’evoluzione di un pensiero e di una prassi che furono barbaramente troncati dai sicari di Mussolini, sia perché l’esigenza del socialismo «dal basso», della dittatura del proletariato nel suo duplice aspetto di difesa contro un nemico ancora fortissimo pur dopo aver perso il potere politico e di fondazione di una nuova e vera libertà, è tuttora un’esigenza: è quel passo decisivo senza il quale non c’è socialismo, ma che non è ancora chiaro se il proletariato potrà e saprà compiere. Ma che lo studio di Matteotti (al quale Stefano Caretti darà, ne siamo certi, altri decisivi contributi di documentazione e di interpretazione) ci conduca senza forzature fino a problemi di questa portata, dimostra l’importanza eccezionale che quest’uomo ebbe non solo come eroico combattente, ma come alta intelligenza del socialismo europeo.