FNISM – CORSO AGGIORNAMENTO / LABORATORIO DI FILOSOFIA - PROGRAMMA 2022-23
1. 16 NOVEMBRE 2022
Donne e guerra nel teatro greco
H. 15,30 -18
Letture: Troiane di Euripide, Lisistrata di Aristofane.
PRESENTAZIONE DEL CORSO: MARCO CHIAUZZA
Introduzione di DONATA MORETTI
Relazione di PAOLA DOLCETTI (prof.ssa di lingua e letteratura greca, Università di Torino)
Le Troiane è una delle poche tragedie euripidee di cui si conosce la data: furono rappresentate nel 415 a.C. insieme all’ Alessandro, al Palamede e al dramma satiresco Sisifo (perduti). La trilogia, in cui i tre drammi non avevano- per quanto si può dedurre dai ritrovamenti papiracei- un legame tematico particolarmente stretto, arrivò seconda. L’argomento - il destino infelice delle prigioniere troiane dopo la caduta della rocca di Ilio- è lo stesso dell’Ecuba, altro dramma “della guerra”, databile, secondo Canfora, (Storia delle letteratura greca, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 203) in base alla parodia aristofanea nelle Nuvole del 423 agli ultimi anni della prima fase, quella cosiddetta archidamica, della Guerra del Peloponneso (431-421 a.C.). Sono pure identici la scena- l’attendamento degli Achei sulla costa della Troade con le mura della città caduta sullo sfondo - e il coro di prigioniere troiane appunto. Ma nell’Ecuba Euripide aveva collegato le due parti in una struttura a dittico, che atteneva alla duplicità dell’azione, mentre in entrambe le parti campeggiava la figura della protagonista a dare unità alla tragedia. Invece la struttura delle Troiane è caratterizzata da una successione di episodi slegati (tragedia “a pannello”). Inoltre nell’ Ecuba si assisteva in conclusione all’esplosione di un orrore macabro , in cui Euripide individuava “nella crudeltà degli uomini un nuovo sintomo del <<tragico>> immanente all’esistenza” (Del Corno, La letteratura greca, Principato Milano 2003, vol. II, p. 211)- e su questa strada ritroveremo Seneca e il teatro elisabettiano. Invece le Troiane sono un unico dramma del dolore, che “quasi a simboleggiare anche strutturalmente la negazione dell’umano che è conseguenza della guerra, […] è pressoché priva di azione”(Del Corno, cit., p. 213).
Nel prologo Atena e Posidone (qui – diversamente che in Omero-benevolo verso i Troiani) si accordano per sterminare sulla via del ritorno la flotta dei Greci, colpevoli di avere profanato i templi degli dei.
Ecuba, anche qui figura centrale e in scena fino alla fine del dramma, dopo aver ricordato l’ultima notte di Troia, piange insieme alle altre donne del coro il destino di dolore che le attende. Taltibio, l’araldo acheo anch’egli angosciato per la sorte dei vinti, annuncia che per sorteggio Cassandra è stata assegnata ad Agamennone, Polissena alla tomba di Achille (Ecuba non coglie però l’allusione), Andromaca a Neottolemo il figlio di Achille, ed Ecuba ad Odisseo. Cassandra alterna momenti di delirio estatico, in cui intona il proprio epitalamio agitando la fiaccola, a momenti di lucidità, quando consola la madre, dimostrando che la sorte dei vincitori non è migliore di quella dei vinti.
Nel secondo episodio si incontrano Ecuba e Andromaca che, arrivata con il piccolo Astianatte, ricorda straziata il morto marito Ettore: da lei la regina apprende della tragica fine di Polissena sgozzata sulla tomba di Achille (su ciò Euripide non insiste perché aveva già trattato la vicenda nell’ Ecuba). Giunge di nuovo Taltibio ad annunciare che i capi greci hanno deciso di gettare il figlio di Ettore giù dalle mura di Troia: Odisseo ha consigliato di non lasciare in vita il futuro vendicatore di Troia. Andromaca è annichilita dal dolore, dà l’estremo addio al bimbo, mentre l’araldo porta via Astianatte.
Infine giunge Menelao con Elena: l’eroe ostenta estrema durezza verso la moglie, che tratta come una prigioniera dichiarando che vuole portarla con sé in patria perché sia lapidata dai familiari delle vittime che la sua condotta ha provocato. Nasce una sorta di agone giudiziario in cui Elena ed Ecuba sostengono ciascuna le proprie ragioni. Ecuba la maledice, ma Elena si difende dando la colpa di tutto agli dei con un abile discorso, quasi consapevole – come del resto il pubblico- che Menelao, una volta in patria, cederà al suo fascino e la risparmierà. Come ha sottolineato il Del Corno, si tratta di “una scena diversa dalle altre, ma non avulsa dal ritmo e dal significato della tragedia, poiché il possesso di Elena è il simbolo di quella smania che la forza sovrana e indifferente della natura suscita negli uomini pe rovinarli”(cit., p. 213).
Arrivano gli araldi che portano sullo scudo di Ettore il cadavere di Astianatte ed è Ecuba che deve seppellirlo, perché la madre è già partita al seguito di Neottolemo: Ecuba esprime in un ultimo lamento un desiderio di morte che non sarà esaudito, perché occorre una testimonianza di dolore e di pianto per tutti questi mali (vv. 1156-1250).
Troia incendiata crolla, mentre Ecuba e il coro si avviano tristemente alle navi, per andare a vivere schiave in paesi lontani.
Ora tutta la tragedia è intessuta della consapevolezza che il demone della guerra colpisce egualmente vinti e vincitori, come appare già nel prologo, dove Posidone ed Atena annunciano che la flotta greca durante il ritorno in patria sarà distrutta e il mar Egeo sarà disseminato di cadaveri; anche Cassandra profetizza la fine umiliante che incombe sul capo di Agamennone, vittima dell’inganno della moglie Clitennestra.
Il patriottismo che ispirava alcuni drammi precedenti è lontano: anche se la prospettiva è collocata dalla parte degli sconfitti, come nei Persiani eschilei, ciò non ha lo scopo di celebrare i vincitori con le loro ragioni e i loro valori, ma quello di portare a un livello estremo di pathos il dolore provocato dall’empietà degli uomini.
Euripide rappresentò il dramma nel 415, quando le ambizioni egemoniche di Atene oltrepassavano i confini dell’Egeo, giacché nell’estate di quell’anno la flotta ateniese avrebbe preso il mare per la Sicilia. Si è spesso osservato che con quest’opera l’autore volle mostrare agli Ateniesi riuniti nel teatro di Dioniso il quadro della guerra con tutti i suoi orrori, allo scopo di dissuaderli appunto dall’intraprendere la spedizione in Sicilia.
Ora è vero che –soprattutto negli anni successivi alla pace di Nicia- la guerra era diventata sempre più brutale e sentimenti come la pietà e il rispetto dei vinti erano venuti meno: basti pensare che nel 416, l’anno prima della rappresentazione delle Troiane, l’isoletta di Melo, posta di fronte alla costa orientale del Peloponneso, che voleva mantenersi neutrale durante il conflitto, venne assediata dagli Ateniesi e conquistata, vi fu insediata una cleruchia ateniese, furono sterminati gli uomini e rese schiave le donne. Come ci ricorda Canfora (Il mondo di Atene, Laterza, Roma-Bari 2011, pp.177 ss.), Euripide aveva chiesto il coro per la tetralogia dedicata al ciclo troiano nell’estate del 416, quando l’invio di una flotta ateniese a Melo era stato appena deciso o la flotta era al più appena sbarcata nell’isola: l’ipotesi che la tragedia culminante della tetralogia (le Troiane) sia stata scritta sull’onda della campagna contro Melo pare dunque legittima. Sino a quel momento la spedizione contro Siracusa non era ancora stata portata in discussione davanti all’assemblea, sicché pare problematico pensare a una connessione tra la nostra tragedia e la psicosi di massa favorevole alla spedizione siciliana sorta ad Atene (Tucidide, VI,1,1 parla di un risveglio ad Atene dell’impulso a imbarcarsi con armamenti più massicci che in passato con cui puntare sulla Sicilia e conquistarla nell’inverno 416/15, quando la tragedia era ormai rappresentata).
Nel prologo Posidone sentenzia che è folle quel mortale che abbatte le città, perché così prepara la sua propria rovina: egli stesso in seguito sarà destinato a perire (vv.95-97). In questi versi Canfora (cit. p.180) vede piuttosto un accenno alla vicenda di Melo, che riecheggia la previsione messa in bocca da Tucidide (Storie V, 90) agli abitanti di Melo nel famoso dialogo da lui inventato con gli Ateniesi prima del loro eccidio.
Utilmente lo studioso ricorda che la distruzione dell’isoletta era avvenuta in tempo di pace: al di là della ricostruzione tucididea, ai contemporanei la vicenda apparve come un regolamento di conti nei confronti di un ex alleato che aveva defezionato (e Isocrate, nel Panegirico,100-114, dice che Melo fu trattata secondo le modalità solitamente adottate nei confronti degli alleati che avevano defezionato; del resto analoga richiesta era stata approvata su proposta di Cleone nel 427 per l’ex alleata Mitilene, anche se poi il provvedimento era stato revocato). I Melii avevano smesso di pagare il tributo e forse avevano anche aiutato Sparta: ora veniva loro richiesto di tornare nella Confederazione delio-attica sotto minaccia di una punizione esemplare. Ciò avrebbe spinto Tucidide a comporre il dialogo Ateniesi-Melii ed Euripide a inserire nel prologo delle Troiane la sentenza di Posidone (Canfora, cit.,182).
Lo studioso ricorda anche che Alcibiade, l’uomo più in vista del momento, l’ esponente della jeunesse dorée più spregiudicata, aveva voluto comprare una donna di Melo appena resa schiava (ed avere un figlio da lei), il che è appunto ciò che accade nelle Troiane tra Neottolemo, figlio dell’uccisore di Ettore, ed Andromaca: ella a Ecuba dice che il figlio di Achille ha voluto prendere lei – una prigioniera- come moglie e quindi sarà una serva nella casa degli assassini (vv. 658-660). Il dramma delle prigioniere troiane schiave dei vincitori torna nell’Ecuba e nell’Andromaca, ma qui, nelle Troiane è interessante notare che la vedova di Ettore riflette intorno a ciò che si suole dire (al fine di indurle alla sottomissione), cioè “che una sola notte scioglie l’avversione di una donna per il letto di un uomo” (vv. 665-666). In una società schiavistica, in cui lo stato di guerra stava producendo schiavi in gran quantità, Euripide non nasconde l’ambiguità della condizione dello schiavo, quando essa coinvolge la dipendenza tra i sessi. Il pubblico reagiva, continua lo studioso, come sappiamo dall’anonimo autore della Contro Alcibiade (attribuito ad Andocide) che denuncia l’enormità della prevaricazione di Alcibiade: qui la critica del suo operato si appunta sul piano privato, non si discute la legittimità della punizione inflitta agli ex alleati. Rispetto alla tradizione spiccano dunque il dialogo tucidideo ,“terribile” secondo Nietzsche, e Senofonte che nelle Elleniche (II,2,3) dice che gli Ateniesi temevano ormai di dover subire quanto avevano inflitto ai Melii, nonché Euripide con le Troiane.
In conclusione la circostanza che la trilogia comprendente le Troiane sia contemporanea alla progettazione e all’avvio della spedizione in Sicilia non implica di necessità un rapporto con quell’evento: non è tanto la temeraria impresa siciliana che preoccupa il poeta, ma la spirale della guerra in sé.
C’è una necessità storica, per cui violenza e prevaricazione costituiscono un sistema di potere, da cui gli stessi responsabili finiranno per essere travolti, ma, come afferma Nicole Loraux, (La voce addolorata, Gallimard, Paris 1999, trad. it. Einaudi, Torino 2001) la tragedia greca non è solo dramma politico: la condanna contingente della guerra e della sete di conquista è anche la denuncia di un dolore connaturato alla condizione umana, che si esprime come dolore universale in questa lunga cantata luttuosa.
In due anni, sul finire dell’estate del 413, l’avventura siciliana finisce nel peggiore dei modi, con la flotta distrutta, il fiore della gioventù ucciso o prigioniero nelle latomie siracusane, vero Lager dell’antichità, il sistema delle alleanze che cedeva in più punti e all’orizzonte- con la mediazione di Alcibiade- una coalizione spartano-persiana.
Ma le riserve finanziarie della Lega delio-attica erano ancora cospicue e Atene poteva resistere: in un clima di riaccesa ostilità verso Sparta Aristofane mette in scena nel 411 due commedie: la Lisistrata (“Colei che scioglie gli eserciti”) e le Tesmoforiazuse (talora tradotta La festa delle donne). Nessuna indicazione ci permette di stabilire a quale festa fosse rappresentata ciascuna delle due commedie femminili, ma sembra probabile che la prima, col suo orizzonte panellenico, fosse destinata alle Grandi Dionisie (7-11 aprile 411). Questa commedia andò in scena sotto il nome di Callistrato, mentre le Tesmoforiazuse furono presentate dall’autore; di entrambe non sappiamo se ebbero successo.
Nella Lisistrata le donne mirano a porre fine alla guerra (tematica presente anche negli Acarnesi del 425 e nella Pace del 421), ma il tono è diverso. Mentre le commedie antiche parlavano dei dolori della guerra e colpivano coloro che cercavano di trarre vantaggio dalla disgrazia comune, quest’opera è animata da un vero spirito di conciliazione. Nel momento in cui la città sosteneva la lotta più dura per la sua esistenza, Aristofane esprimeva apertamente la convinzione che molti fattori parlavano a favore del grande nemico e che la miglior cosa per essa sarebbe stata porgergli lealmente la mano: il poeta pare guardare molto al di là dell’orizzonte ateniese e dare prova di sentimenti realmente panellenici.
Le allusioni alla politica interna sono più rare, per quanto a quel tempo, alla vigilia del colpo di stato oligarchico del 411 la tensione dovesse essere forte.
Come altre commedie aristofanee (Nuvole, Vespe, Ecclesiazuse) anche questa comincia all’alba: l’ateniese Lisistrata, l’eroina della commedia che ha escogitato il piano paradossale, aspetta le sue collaboratrici che arrivano dal Peloponneso e dalla Beozia. A poco a poco le cospiratrici si radunano, ma quando Lisistrata rivela il suo principale mezzo di lotta, lo sciopero del sesso per ottenere la pace, si vede subito che sarà molto difficile imporre un simile sacrificio. La donna trova tuttavia la sostenitrice più risoluta nella spartana Lampito, il patto si giura solennemente su un otre di vino, le anziane prendono possesso della rocca e si assicurano così il possesso del tesoro della Lega, al quale gli uomini attingono per le spese di guerra.
Nella Lisistrata ci sono fin dall’inizio due cori a contrasto e non si può dire con certezza se venisse introdotto un secondo coro o se il primo fosse diviso in due semicori; in ogni caso non si tratta di un’innovazione, dato che la contrapposizione agonale di due cori faceva già parte delle forme più antiche (ad es. l’Iporchema di Pratina).
Dapprima giunge il coro dei vecchi che vuole prendere d’assalto la rocca e affumicare le donne. Il coro femminile impiega le armi della facilità di parola e abbondante acqua per tenere in scacco gli uomini. Al contrasto dei due gruppi fa seguito l’agone individuale: arriva con un seguito di arcieri un alto funzionario borioso che fa parte del collegio dei probuli (magistratura - che compare anche nei Demi di Eupoli- creata nel 413 e sostituitasi nella direzione della politica alla Bulè dei Cinquecento: furono loro che prepararono l’istituzione del governo oligarchico dei Quattrocento), ma la sua autorità serve a poco: Lisistrata e compagne gli rinfacciano i difetti degli uomini che vogliono governare, rivendicano la maggior attitudine delle donne nel gestire il governo della città ed egli si ritira schernito. A questo agone individuale segue un altro contrasto fra i due cori. A questo punto ci aspetteremmo la parabasi (almeno manca la parte consueta in cui il poeta parla in prima persona) che forse Aristofane tralascia per non interrompere il ritmo dell’azione o forse nel 411 non era più considerata indispensabile. La commedia ha struttura così rigorosa che le serie episodiche vi occupano un posto minore che altrove, ma una breve serie, subito dopo il secondo contrasto corale, è felice: tre donne, tormentate dai desideri, vogliono disertare una dopo l’altra, l’ultima con un elmo si finge gravida, finché la coraggiosa Mirrina in omaggio al piano intrattiene il suo Cinesia, lo porta alla disperazione e lo pianta in asso. Gli uomini di Sparta non stanno meglio, come si evince dalla comparsa di un araldo spartano. La conclusione della pace è anticipata dall’accordo tra i due cori, che si uniscono in uno solo. Gli inviati spartani vengono per trattare e Lisistrata , in compagnia della Conciliazione personificata (anche qui come altrove compare una figura allegorica alla fine della commedia), si presenta alle due parti e pronuncia un discorso in cui ammonisce le stirpi greche in contrasto, ricordando la loro comune sorte. Poi naturalmente si celebra il komos, con banchetto e danze. La conclusione non è completa, ma non manca molto.
Che Lisistrata insieme a Pace e Uccelli (414) prosegua la serie delle commedie dell’utopia risulta ben chiaro, se si considera la condizione della donna ateniese del V secolo a.C. Nel momento in cui qualsiasi possibilità di accordo con Sparta sembrava svanire definitivamente e lo scandalo della mutilazione delle Erme riattizzava odi, rancori e gelosia tra i cittadini, il poeta sembra immergersi nella fantasia più pura, per realizzare un’impossibile pace. Eleva dunque a protagoniste le donne, la parte più debole e inascoltata della società attica- ma partecipe dei dolori e dei lutti della guerra come gli uomini- e mette a confronto diretto per la prima volta senza insulti né derisione Ateniesi e Spartani , vittime entrambi della loro cocciutaggine. Ancora una volta ridicolizza i motivi che avevano ufficialmente portato alla guerra, dimostra l’irragionevolezza del conflitto, visto oltreché in termini di distruzione delle campagne e dell’economia, come elemento che turba la pace familiare. Ovviamente in senso politico la soluzione di Lisistrata è solo una proposta provocatoria. L’assemblea dei Quattrocento, che nella primavera del 411 aveva operato un colpo di stato in senso oligarchico, dopo pochi mesi venne sciolta per la reazione degli elementi più moderati e il potere tornò alla Bulè costituita ora da cinquemila cittadini che nel settembre 411 provvide alla ripresa della guerra sul mare contro Sparta. Gli Ateniesi conseguirono alcuni successi che li spinsero alla guerra a oltranza, anziché alla pace.
Val la pena di inserire la Lisistrata un po’ più addentro alla storia di Atene (Canfora, Storia della letteratura greca, cit. pp.237 ss). Lo studioso sostiene che l’impegno politico di Aristofane è sempre al centro della sua produzione teatrale (cosa del resto peculiare della commedia antica) e che il poeta si oppone sempre a quei critici –che avevano molti simpatizzanti nei milieux oligarchici- che mettono in discussione i fondamenti etico-politici della polis democratica ateniese. Ciò si vede soprattutto nelle commedie del periodo che va dagli anni degli oscuri scandali del 415 (mutilazione delle Erme, parodia dei misteri eleusini) a quelli del colpo di stato, quando si vive la lunga crisi della democrazia ateniese: gli Uccelli (Dionisie del 414), che non è solo commedia di pura evasione, e Lisistrata appunto (Dionisie del 411), la cui rappresentazione precede di poco più di un mese il colpo di stato. Essa è infatti il racconto di un colpo di stato, certo benefico, messo in scena mentre Atene, sotto la cappa del complotto, impotente di fronte ad assassini politici regolarmente impuniti (Tucidide, VIII, 65-66) vive gli ultimi giorni di regime democratico. Ora nell’anno attico 412/1 le Lenee capitarono in febbraio e le Dionisie il 7-11 aprile 411; a metà maggio ebbe luogo l’assemblea dominata da Pisandro che portò alla nomina di trenta commissari con poteri straordinari (i quali soppiantarono i probuli): il colpo di stato era cominciato. Anche se la Lisistrata fu rappresentata alle Lenee e non alle Dionisie, il clima era già quello della crisi.
Il colpo di stato che Aristofane mette in scena non è quello di Pisandro e degli altri congiurati, ma Pisandro è ben presente e definito “ladro” (v. 490) e Lisistrata ne denuncia le trame. Il ruolo di allarmati difensori delle istituzioni in pericolo è affidato ai vecchi ateniesi del coro, che nella parabasi denunciano il complotto-certo quello delle donne- ma ne parlano come di un complotto oligarchico in un grido che suona di allarme per la democrazia: “Per gli uomini liberi non è più possibile dormire tranquilli. Prepariamoci; tutto ciò mi puzza di ben altre faccende molto più gravi. E soprattutto, sento odore della tirannide di Ippia. Ed ho paura che degli Spartani, riunitisi a complottare in casa di Clistène (personaggio di non chiara identificazione), inducano con l’inganno le donne a togliermi il salario: il salario di cui io vivo” (vv.614-625). Al che il corifeo risponde: “ Tutto questo, cittadini, è stato tramato per instaurare una tirannide. Ma non ce la faranno, perché io mi difenderò, e porterò d’ora in poi il pugnale in un ramo di mirto, e presiederò in armi l’agorà e starò così [si mette in posa come nel celebre gruppo dei tirannicidi] vicino a lui (vv. 630-634). In questa parabasi manca –come si diceva-la parte consueta in cui il poeta parla in prima persona: la denuncia del coro di vecchi ha un risalto ancora più grande, proprio perché sta al posto dell’allocuzione diretta del poeta. In essa ricorrono espressioni tratte dal repertorio antitirannico, si rinnova l’impegno alla lotta e si adoperano i termini “tirannide” e “oligarchia” come sinonimi, secondo un uso abituale del linguaggio democratico. Tucidide (VI, 53,3 e 60,1) racconta che nel 415, esplosa la psicosi del complotto oligarchico, la gente pensava atterrita alla terribile tirannide di Ippia. Ora il probulo nella Lisistrata alla sua prima apparizione istituisce un paragone tra il turbamento attuale e l’inquietudine febbrile del 415, quando il demagogo Demostrato (uno dei più accesi fautori della spedizione siciliana, decisa durante la celebrazione dei misteri per la morte di Adone nel 415) strepitava perché si salpasse e le donne sui tetti vicini innalzavano i lamenti lugubri per Adone- sinistro presagio (vv.387-398). L’apparizione del probulo- significativa di per sé- mira evidentemente a caricare la scena di significati politici attuali; però è ancora più rilevante il fatto che questo commissario, incaricato della salvezza della città, istituisca subito un raffronto tra la situazione attuale e quella lontana crisi che aveva suscitato apprensioni analoghe. Poi è Lisistrata stessa che - nel suo importante discorso finale (vv. 1150-1156) –parla della cacciata di Ippia, per allontanare il quale fu necessario l’intervento degli Spartani del re Cleomene. E poco prima, sempre in questa scena conclusiva, quando Ateniesi e Spartani, in preda al desiderio, ostentano i loro organi sessuali e paiono quasi delle erme animate, il coro dei vecchi dice: “Mettetevi il mantello, che non vi veda qualche ermocopide!” (v. 1094). Si tratta di una lunga scena, ovviamente non motivata dal gusto dell’osceno, ma che certo palesemente allude all’attualità.
L’allarme per il pericolo oligarchico incombe come al tempo degli ermocopidi, i “rompitori di Erme”, (quando si temette appunto, come dice Tucidide, un “complotto oligarchico e tirannico”) e la commedia tutta è disseminata di riferimenti a ciò, ma soprattutto il fine stesso perseguito dall’eroina con il suo colpo di stato “benefico” si comprende appieno nel clima di crisi di quei mesi. Il proposito incalzante di pace immediata, che si spinge a toccare sulla scena un tema scottante delicato come quello delle concessioni territoriali da fare a Sparta, suona come una precisa proposta: prevenire gli oligarchi e realizzare subito quella pace, che per gli oligarchi artefici del complotto era il fine precipuo e poteva essere la carta vincente. Per tutto il tempo del loro governo, infatti, essi non fecero altro che offrire a Sparta trattative di pace (Tucidide, VIII, 70,2; 71,3; 89,2;90,2). Una soluzione impossibile, certo; e perciò affidata nell’invenzione comica alle donne, cioè a dei non-soggetti politici della città democratica.